Ufficiale per i diritti umani per l'Associazione Legale Internazionale e Consulente, Public International Law & Policy Group | Scienze Politiche e Sociali

Federica D'Alessandra

Ufficiale per i diritti umani per l'Associazione Legale Internazionale e Consulente per il Public International Law & Policy Group

Il suo nome è stato inserito nella lista di Forbes degli Under 30 più influenti al mondo. Siciliana, di origine, Federica D’Alessandra ha studiato diritto internazionale alla facoltà di Scienze politiche dell’Università Cattolica di Milano e ha fatto della sua vocazione al servizio pubblico una scelta di vita. Ora vive a New York, dove lavora come ufficiale per i diritti umani per l'Associazione Legale Internazionale e consulente per il Public International Law & Policy Group.

Come è nata la vocazione che l’ha portata a lottare per i diritti umani?

Il nostro Paese vanta una tradizione giuridica d’eccellenza che mi ha sempre appassionato. La nostra storia dal dopoguerra all’integrazione europea, con tutto ciò che questa ci ha portato in stabilità, prosperità e pace, mi ha sempre affascinato. Crescendo in Sicilia, poi, è stata la natura della lotta alla mafia ad aprirmi gli occhi sul potere della Legge e delle Istituzioni, l’importanza dello Stato di Diritto. L’aver deciso da giovanissima di fare volontariato in regioni remote dell’Africa Sub-Sahariana credo abbia fatto il resto. Dopo aver toccato con mano le conseguenze della fame, della guerra, della corruzione, e della povertà estrema sapevo ed ero convinta di voler operare affinché a ogni essere umano fosse riconosciuta la propria dignità e fossero garantiti i propri diritti.

La protezione dei diritti, però, non è una funzione a se stante. Come ho detto la mia vocazione è il servizio pubblico nel senso più generico del termine. Per questa ragione mi piacerebbe partecipare un giorno non solo alla formulazione di politiche pubbliche, ma anche al regolare svolgimento delle funzioni delle istituzioni investite con il potere, sacrosanto, di tutela dei nostri diritti e doveri più in generale.

Con il suo lavoro le è mai capitato di influenzare e magari modificare le intenzioni dei potenti?

La natura del mio lavoro è di fornire consulenza di tipo tecnica. Soprattutto quando questa consulenza è direttamente sollecitata, sì, mi piace credere che sia tenuta in considerazione, ma non posso certo darlo per scontato. Le intenzioni (e decisioni) dei “potenti” sono però determinate da molti, troppi fattori perché l’influenza del lavoro di una singola persona (o ente che sia) possa essere quantificata. E comunque non tutti sono fattori di natura tecnica. Ho avuto opportunità di scambio, sia formali che informali, con protagonisti di negoziati e decisioni importanti. Dunque nel mio piccolo forse ritengo di aver avuto, talvolta, la possibilità di presentare il mio punto di vista anche a livello politico-strategico. Ciò che importa a mio parere, tuttavia, non è l’impronta specifica che si lascia, se non la possibilità di esserci al tavolo dei negoziati (o dietro le quinte, come risulta molto più spesso essere il caso). Mi ritengo molto fortunata ad avere una voce. Anche se fosse minima, anche se in maniera occasionale, avere una voce è importante.

Dopo l’elezione di Donald Trump, quali sono state le reazioni alle dichiarazioni più forti del neopresidente da parte di chi, come lei, si batte per i diritti umani?

Di sgomento, e di oltraggio, a dire la verità. Dalla “reintroduzione della tortura” che il Presidente ha promesso in campagna elettorale, alle promesse di abbandonare il Consiglio Onu per i Diritti Umani, e taglio dei finanziamenti sia alle Nazioni Unite che al Dipartimento di Stato (la parte del governo americano che ha competenza, tra le altra cose, sui diritti umani), le sue politiche sono l’esatto opposto di ciò che in molti vediamo come necessario, se non auspicabile. Il mondo intero si trova a un bivio, e se per certi aspetti è vero che non dobbiamo e non possiamo continuare a dare per scontata la leadership americana, storicamente il ritiro dell’America dagli affari internazionali non ha avuto bei risultati.

Da Trump all’Ungheria, sempre più Paesi si apprestano ad innalzare muri. Cosa fate voi “addetti ai lavori” per arginare queste derive xenofobe?

I muri sono sintomo di un male molto più profondo della xenofobia: sono frutto dell’insoddisfazione del cittadino con le proprie istituzioni, mista al risentimento e il senso dell’abbandono che in molti hanno forse sempre sentito, ma che si è rinforzato con lo scoppio della crisi economica mondiale. Storicamente, in tempi di crisi, il genere umano ha sempre avuto la tendenza a trovare capri espiatori. Al giorno d’oggi il capro espiatorio sono i rifugiati. Le migrazioni, a livello mondiale, magari si possono regolare, ma non si possono fermare.

Per quel che ci riguarda, noi “addetti ai lavori” proviamo a disseminare, quanto più è possibile, informazioni reali e fattuali che possano smontare le immagini che si formano nelle menti di coloro i quali sono poco informati. I benefici economici della migrazione non sono compresi da tutti e comunicare al cittadino in che modo esso stesso, insieme al resto della società, può beneficiare è sicuramente un modo costruttivo di affrontare il dialogo. Abbiamo un obbligo morale di accogliere chi fugge le guerre e i disastri naturali. Perché ciò sia possibile è necessario però che le giuste politiche vengano implementate e che ognuno (inclusi i vari governi) faccia la propria parte nell’assicurarsi che l’accesso ai servizi e alle risorse sia quanto più possibile adeguato.

Le è capitato di seguire in prima persona vicende legate alle tragedie dei migranti o alla guerra in Siria?

La tragedia della popolazione civile siriana è la mia angoscia quotidiana. Non c’è giorno che passa senza che un meeting, una lettera, un discorso non sia fatto per la popolazione siriana. Questa guerra, e la crisi che ne è scaturita, rimarranno a macchia indelebile nella coscienza collettiva della comunità internazionale.

Attualmente, in quale ambito si registrano maggiori violazioni dei diritti umani?

Senza dubbio le atrocità peggiori sono commesse in Siria, ma anche in Yemen e Sud Sudan. In generale, però, il 2016 è stato un anno terribile dal punto di vista dei diritti umani. Tortura, detenzioni illegali ed esecuzioni di massa rimangono comuni in troppi Paesi del Medioriente, dell’Asia, e dell’Africa sub-Sahariana. Anche in America Latina, nel contesto della cosiddetta “guerra al narcotraffico”, abusi a danno di popolazioni civili inermi continuano a essere perpetrati. Il terrorismo sembra però essere la minaccia più preoccupante. E non perché infligga più perdite, ma perché è un problema che a livello strategico e strutturale non siamo ancora pronti ad affrontare in maniera chiara ed organica.

Che ricordo ha dei suoi anni come studentessa alla Cattolica di Milano?

Ne ho tantissimi. Ricordo i compagni di corso e i professori. In particolare le lezioni del  professor Paolo Colombo, che mi appassionavano per i contenuti ed il metodo d’istruzione interattivo. Ricordo anche il corso dell’allora Rettore, professor Lorenzo Ornaghi, con cui tra l’altro ho avuto il privilegio di laurearmi. Ricordo le lezioni del professor Damiano Palano, che ci citava sempre studi di professori di Harvard con cui oggi mi ritrovo magari anche in Consiglio di Facoltà. Ricordo l’Alta Scuola di Economia e Relazioni Internazionali (ASERI), dove ho avuto la possibilità di partecipare a qualche corso. Ricordo la biblioteca centrale, bellissima, come d’altro canto il resto della sede universitaria. Ricordo anche la mia vita al Paolo VI, il collegio universitario dove alloggiavo, la famosissima Suor Stella e Monica, l’imbattibile chef della mensa collegiale, che aveva sempre tantissima pazienza con me, allora una delle pochissime vegetariane in sala. Gli anni universitari sono anni incredibili, in cui si impara tantissimo di se stessi e degli altri. Sono felicissima di averli passati in Cattolica. Credo sia davvero uno degli atenei che offre di più in Italia.

Dopo l’università quali sono stati i passi che l’hanno portata ad avviare un percorso professionale?

A dire la verità, ho cominciato a fare qualche passo - credo in maniera cruciale - già in università. Dal punto di vista dell’offerta formativa, mi sono assicurata di accumulare quante più esperienze estere mi fosse concesso, dall’UN Model Italy – la simulazione delle sedute dell’Onu - al volontariato in Congo, dall’Erasmus in Francia alla tesi negli Stati Uniti. L’essere esposta, grazie alle opportunità offerte della Cattolica, a diverse realtà credo mi abbia seriamente incoraggiato a trovare la mia strada. Durante l’università, poi, ho anche ottenuto uno stage al Consolato Americano di Milano per quasi un anno. Anche quell’esperienza mi ha molto cambiata. L’essere testimone, a un’età così giovane, della serietà e la solennità con cui gli ufficiali statunitensi di carriera diplomatica svolgevano le proprie funzioni e la serietà che dimostravano anche e soprattutto nei miei confronti ha rafforzato enormemente la mia passione per il servizio pubblico.

Uno stage determinante…

L’etica di lavoro statunitense mi ha aperto gli occhi sul fatto che le competenze si acquisiscono lavorando, e che è importante dimostrare voglia di fare, flessibilità, e spirito d’iniziativa, ma anche la capacità di imparare, e di farlo velocemente. Mi ha insegnato il valore del “feedback”, dell’attenzione ai dettagli, e mi ha insegnato a relazionarmi con persone molto più esperte ed importanti a livello professionale. Mi ha anche aiutato ad acquisire le competenze lavorative a livello linguistico, senza le quali non si va da nessuna parte. Queste sono tutte cose che ho potuto sfruttare quando mi sono spostata negli Stati Uniti, prima per la tesi, poi per un secondo stage.

Dove l’ha condotta questa seconda opportunità?

Sono stata in stage ad Harvard: ero l’assistente di ricerca di Sarah Sewall, l’allora direttrice del programma di Sicurezza Nazionale e Diritti Umani alla Kennedy School, che poi divenne Sottosegretario di Stato alla sicurezza civile e diritti umani nella seconda amministrazione Obama. Una donna risoluta da cui ho imparato veramente tanto. A livello professionale, accademico, e personale. Ho lavorato così duramente per ottenerne l’approvazione! Gli sforzi furono notati dall’allora direttore del centro Charlie Clements, che mi offrì prima un’estensione dello stage, e poi un contratto. In quegli anni meravigliosi ho imparato tutto ciò che so oggi sulla atrocità di massa, e su come la mobilitazione delle forze nazionali ed internazionali può avere impatti imprevedibili per la prevenzione e l’arresto di queste tragedie. Ho imparato il valore vero delle relazioni tra i civili e i militari, una presa di coscienza che mi ha spinto a specializzarmi in diritto umanitario, diritto pubblico, e diritto delle organizzazioni internazionali.

Un percorso in crescendo…

Grazie all’esperienza di Harvard mi sono avvicinata al mondo dei tribunali internazionali, prima dal punto di vista istituzionale, poi anche dal punto di vista operativo e giurisprudenziale, con la conseguente decisione di spostarmi in Olanda per qualche tempo e proseguire gli studi in diritto internazionale. Mi sono avvicinata a network professionali come l’American Society of International Law e l’International Bar Association - all’interno della quale oggi ho una posizione di leadership in seno, per esempio, al Comitato per i Crimini di Guerra, il Comitato per i Diritti Umani, e il Consiglio della Sezione sull’Interesse Pubblico e Professionale -, senza mai rescindere il rapporto con Harvard. Ed è stato proprio questo rapporto, rafforzato dal percorso di arricchimento del profilo professionale che ho avviato, che mi ha lanciato nella posizione attuale.

Alla luce della sua esperienza che cosa si sente di consigliare e suggerire ai giovani studenti e ai neolaureati della sua Università?

Di non scoraggiarsi, di non gettare la spugna, di continuare a sognare e soprattutto di credere in se stessi e nelle proprie capacità. Di non aver paura di mettersi in gioco e di cercarsi le opportunità giuste che, sebbene a volte difficili da trovare e comunque altamente competitive, esistono. Certo non sono abbastanza. Sebbene la Cattolica faccia un ottimo lavoro durante e dopo la laurea, servirebbe fare molto di più a livello istituzionale per aiutare i giovani in Italia, perché di talenti ce ne sono tanti. D’altro canto, però, a volte vedo alcuni giovani che si cullano o che vogliono le opportunità servite sul piatto. A questi dico di svegliarsi e prendere coscienza, perché il proprio futuro, come quello del nostro Paese, è anche nelle loro mani.

Presenza, 2017 - Ne ha fatta di strada di Ilaria Mauri

Federica D'Alessandra

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