Founder & CEO Save the Duck | Economia

Nicolas Bargi

«Volevo creare qualcosa di diverso dal solito piumino, che fosse anche un'alternativa di coscienza per tutte quelle persone che, come me, tengono molto all'eco-sostenibilità e alla salute del nostro pianeta». Nicolas Bargi, pisano, classe 1970, rivendica con orgoglio la sua invenzione: un piumino interamente eco-sostenibile e cruelty free, realizzato con materiali sintetici in grado di riscaldare anche nei climi più ostici, senza fare alcun utilizzo di piume d'oca.  “Save The Duck” (letteralmente “Salva la papera”) è il nome dell'azienda fondata da Bargi, che produce il piumino verde e animal-friendly. Solo nel 2016 sono state salvate oltre due milioni di oche. E non è il solo dato importante: Save The Duck cresce a doppia cifra ogni anno, nel 2016 ha ottenuto 27.5 milioni di euro di ricavi. Per il 2017 si punta a un fatturato di 32.5 milioni di euro. Ma come è cominciato tutto? Lo racconta a Presenza lo stesso Bargi, che proprio all'Università Cattolica di Milano ha cominciato i suoi studi.

Nicolas Bargi, qual è stata la sua formazione?

Dopo la maturità scientifica mi sono iscritto al Corso di laurea in Economia dell'Università Cattolica di Milano, con indirizzo Gestione e Amministrazione.  Nel 1996 mi sono laureato con una tesi scritta alla Columbia University di New York.

Però ho iniziato a lavorare già da prima, avevo molta voglia di iniziare. Ho svolto tutte le mansioni possibili presso l'azienda di mio padre, la Forest. Ho fatto il magazziniere, il rappresentante, mi sono occupato della gestione crediti, della parte commerciale e, infine, della parte prodotto, che è poi diventata la mia specializzazione. Perché io sono prima di tutto un uomo prodotto, nel senso che mi occupo soprattutto del rapporto tra quello che percepisco si possa vendere come prodotto e i canali di distribuzione e dunque la parte commerciale. Diciamo che negli anni questo è diventato il mio expertise.

Come ha preso il via il progetto “Save The Duck”?

La nostra azienda lavorava soprattutto per conto di terzi, solo in seguito abbiamo iniziato a produrre delle nostre linee, come Bull&Bear, Blackwitch e Ganesh, che ha iniziato a vendere in tutta Europa. Nel 1995 poi, un anno prima della laurea ho aperto uno studio in Cina, a Hangzhou, che ancora oggi rappresenta il mio fiore all'occhiello. Si tratta di un ufficio di rappresentanza che si occupa di svolgere controlli di qualità e gestione dei campionari delle collezioni. Poi sono arrivati gli anni più difficili, quelli della crisi, dal 2008 al 2011. È stato un periodo molto difficile, volevamo ristrutturare  l'azienda, ma le banche non aiutavano, anzi tendevano a restringere i fili. Dunque abbiamo deciso di finanziarci da soli, rilanciando l'azienda attraverso il progetto “Save The Duck” che ha avuto inizio, a livello pratico, nell'inverno del 2012. Da luglio 2014 è iniziata la ripresa, i numeri erano importanti e la crescita sostenuta, ma sapevo che da soli non saremmo riusciti a reggere questi dati.

Dunque cosa ha fatto?

Ho preso una decisione importante: liquidare la parte dell'azienda di mio padre e far entrare come socia Marina Salamon, che ancora oggi detiene come socio finanziario il 51%, mentre io ho il restante 49%, ma sono socio operativo.

Come è nata nel dettaglio l'idea di produrre piumini “cruelty free” ed eco-sostenibili?

Tutto è partito da uno studio duplice: innanzitutto ho osservato con molta attenzione il fenomeno del piumino Igloo, che in Estremo Oriente stava avendo un grandissimo successo. Inoltre dopo aver letto con attenzione i dati sui consumi a livello nazionale ho capito che nei prossimi anni il modello più richiesto dal mercato sarebbe stato il micro-piumino, ovvero il capo che si mette otto mesi l'anno. Però non volevo limitarmi  a produrre il solito capo in piuma d'oca già abbondantemente presente sul mercato. La mia idea era creare qualcosa di diverso, che fosse anche un'alternativa di coscienza per tutte quelle persone che, come me, tengono molto all'eco-sostenibilità e alla salute del nostro pianeta. Un prodotto, insomma, che rispecchiasse il mio modo di pensare. Tra l'altro ci sono molti studi che dimostrano che la dimensione etica sta orientando sempre di più il mercato in tutti i settori. Una ragione in più per produrre un piumino etico.

Tecnicamente parlando quali sono i vantaggi di un capo firmato Save The Duck?

Il nostro piumino, realizzato con materiali sintetici, è più performante rispetto ai modelli tradizionali. È una caratteristica che si nota soprattutto nei capi sportivi. Basti pensare che è dagli anni 90 che non si fa più hiking o sci con indumenti in piuma.

Con quali materiali e procedure realizzate il vostro prodotto?

L'imbottitura dei piumini è ricavata dal pet, materiale di scarto del petrolio che trattiamo in due maniere: c'è il pet 'vergine' che viene utilizzato come plumtech e il pet che invece si ottiene a partire dal riciclo delle bottiglie di plastica, dunque subisce due processi di produzione. Stiamo cercando di utilizzare sempre di più questo secondo tipo di materiale, ma si tratta di un processo ancora in fieri che potrebbe concludersi tra due o tre anni. Un altro obiettivo è produrre capi utilizzando materiali di scarto vegetali, come canne di bambù, palme e bucce di banane. In fondo è questo il vero riciclo sostenibile.

Com'è stata la risposta dei consumatori?

Direi eccezionale e lo dimostra il fatto che stiamo sempre di più conquistando share di mercato importantissimi, ovviamente a discapito di prodotti già esistenti che io definisco obsoleti o, per meglio dire, vintage. Faccio di nuovo l'esempio dello sport: in questo settore i consumatori sono diventati più esigenti e vogliono un prodotto più funzionale. Per i capi di città non siamo ancora così avanti, ma c'è un attenzione sempre più grande alla dimensione etica e sostenibile, sia da parte delle aziende che degli acquirenti.

Save the duck ha collaborato con associazioni animaliste importanti come il Wwf. Può raccontarmi qualche progetto che avete realizzato insieme?

La partnership con il Wwf è qualcosa che è proprio nel nostro dna. Tra i lavori più importanti c'è stata la realizzazione di una linea di piumini per festeggiare i 50 anni dell'Associazione. Abbiamo creato 50 capi di 50 colori diversi, uno per ogni animale a rischio estinzione. Attraverso l'acquisto del piumino era possibile dare il proprio contributo per la salvaguardia della specie in pericolo. È stato un progetto molto impegnativo, 50 storie da raccontare sono tante, ma ci ha dato moltissime soddisfazioni, ne è valsa la pena. Nonostante avessimo già intrapreso un cammino aziendale all'insegna della sostenibilità, inoltre, volevo che Save The Duck ricevesse anche la certificazione del Wwf. Si tratta di un riconoscimento difficile da ottenere, perché gli standard dell'associazione sono molto severi. Possiamo dire che il Wwf propone una vera e propria new diligence del prodotto.

Tuttavia posso dire che, a mia sorpresa, Save The Duck rispondeva già per il 90% ai parametri.

Lo scorso 3 maggio è stato un giorno importante: la vostra azienda ha debuttato nel programma “Elite” di Borsa Italiana come unica matricola del segmento moda. Cosa ha significato per lei?

È stato un traguardo fondamentale per aiutarci a raggiungere i nostri obiettivi. Save The Duck vuole crescere, farsi conoscere e diventare un'azienda triple digit. Per farlo ha bisogno di partner forti, che possano garantirle una crescita più stabile.

Quali sono i programmi per il futuro di Save The Duck?

Puntare sullo sviluppo dell'e-commerce e del retail (vendita al dettaglio) e accostare a tutto quello che già produciamo la parte dell'accessorio, quindi realizzare un altro prodotto oltre alla giubotteria.

Save The Duck produce in Cina. Perché questa scelta?

Perchè la Cina offre un rapporto qualità-prezzo praticamente imbattibile. Ci sono realtà che in Europa ci sogniamo, aziende con un'organizzazione assolutamente all'altezza di ogni industria al mondo. Questo non vuol dire che l'intero processo produttivo si fa in Cina, perché ad esempio la parte del noveau e dell'estro si svolge in Italia. Tutte le fabbriche con cui lavoriamo in Cina comunque  sono certificate e non c'è rischio di sfruttamento o di mancato rispetto dei diritti umani.

Un'ultima domanda: che ricordo ha degli anni trascorsi all'Università Cattolica?

Sono stati gli anni più belli della mia vita, anni di  sacrifici, ma i migliori sia in termini di formazione che umanamente.  Si studiava tantissimo e c'era una gran voglia di andare avanti. Sono convinto che quelli dell'università siano anni fondamentali per formare la personalità di una persona. Ancora oggi mi sento con diversi compagni di corso.

Presenza, settembre - dicembre 2017 di Giulia Argenti

Nicolas Bargi

scroll-top-icon